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I referendum del maggioritario

di ROBERTA FANTOZZI
23/04/2018 - 15:16

Vi ricordate quel 18 aprile? 25 anni fa il 18 e 19 aprile si votò per8 referendum abrogativi, tra cui quello che apriva la strada alla modifica in senso maggioritario della legge elettorale.
In piena tangentopoli e nel conseguente clima di delegittimazione totale della classe politica, gli elettori votarono in maniera massiccia per “cambiare”.
Prevalse il SI con l’83% dei consensi.
Finiva il tempo del sistema elettorale proporzionale, che i costituenti avevano pensato come strutturalmente connesso alla Carta Costituzionale, anche se non l’avevano inserito direttamente in Costituzione.
Fu decisiva l’adesione al fronte del SI guidato da Mario Segni del PDSdi Occhetto che recise allora il legame con la concezione parlamentare della democrazia, cioè con l’idea che le elezioni dovessero servire in
primo luogo a rappresentare la società, con le sue articolazioni di interessi e di valori, per abbracciare l’idea delle elezioni come competizione per il governo.
Una modifica che segnò la storia successiva in maniera radicalmente regressiva, impermeabilizzando progressivamente le istituzioni dalla società e dal conflitto sociale, teorizzando la competizione “al centro”, nella progressiva omologazione dei soggetti politici.
La “discesa in campo” di Berlusconi esaltò al massimo le conseguenze negative dell’avvento del maggioritario: nella logica in cui un solo voto in più poteva essere decisivo per la conquista del governo, la pressione per obbligare alle coalizioni divenne fortissima.
E’ la storia con cui dovette fare i conti negli anni successivi la neonata Rifondazione Comunista: se non ti alleavi con il PDS venivi accusato di essere “oggettivamente” alleato con Berlusconi. Quando ti alleavi invece, rimanevi stritolato dalle aspettative che venivano riposte su di te, e che rimanevano regolarmente frustrate da governi segnati dalla crescente introiezione da parte del Pds degli assiomi del social liberismo: primato del mercato con un po’ (sempre meno) redistribuzione.
Alle origine dell’attuale condizione della sinistra radicale in Italia ci sono due motivi di fondo.
Il primo è quella modifica del sistema politico che produsse tanto una crescente separazione della politica dalla società, quanto il ricatto sulle formazioni della sinistra di alternativa, con continue scissioni
consumate tutte sul nodo delle alleanze, in una politica complessivamente ridotta a conquista del governo.
Il secondo è il rovesciamento di segno di quella straordinaria esperienza che era stato il PCI: la capacità di innervare tutta la società dei propri legami in una costruzione articolata che andava dal sindacato alle case del popolo, dalle cooperative all’associazionismo sportivo, funzionò allora come un velo sulle mutazioni in corso. Le relazioni politiche e personali continuarono ad agire come una rete vischiosa, una sorta di autocertificazione che si era sempre dalla stessa parte, anzi che continuava la stessa storia.
Ci sono luoghi in cui fino a Renzi si era convinti di stare ancora nel PCI, come se il merito delle scelte, l’impianto di fondo nulla contassero rispetto alle antiche appartenenze.
Il ricatto del maggioritario nel degrado della politica a competizione per il governo, la forza perdurante delle relazioni e di quelle antiche appartenze, sono una parte non piccola dei motivi che hanno impedito nella specifica situazione italiana, processi di soggettivazione e di costruzione di un campo solido dell’alternativa.
E’ una storia che è finita, e che ci lascia davanti tutta la necessità di costruirne una nuova.