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La strage di Parigi 10 anni dopo le banlieues

di FEDERICO TOMASELLO
26/11/2015 - 12:11

L'orrenda strage di Parigi cade esattamente nel decennale della cosiddetta "rivolta delle banlieues": si tratta di una contingenza significativa che molti commenti hanno omesso di sottolineare. Avendo appena pubblicato un testo sulla violenza che da quell'avvenimento prende le mosse, provo ad analizzare alcuni significati di tale coincidenza.

Il 25 ottobre 2005, in un comizio nella banlieue di Argenteuil, l'allora ministro degli Interni Sarkozy promette agli abitanti di liberarli dalla "feccia" giovanile (racaille) che popola la zona. Due giorni dopo a Seine Saint-Denis il quindicenne Bouna e il diciassettenne Zyed muoiono fulminati nella centralina elettrica in cui si erano nascosti per fuggire due agenti di polizia. Le tre settimane seguenti segnano l'ondata di disordini più intensa del dopoguerra francese: ogni giorno al calare del sole le banlieues di oltre trecento comuni vengono investite da scontri, saccheggi, devastazioni.

Allora come oggi il governo ha decretato lo stato d'emergenza e chiesto poi al Parlamento di prorogarlo per tre mesi in forza di una legge che è anche carica di significati simbolici. Essa fu infatti promulgata nel 1955, durante la guerra d'Algeria, per consentire i rastrellamenti e l'apertura di "campi di internamento amministrativo" per i combattenti algerini. Nell'autunno 2005 essa è stata applicata per la prima volta nel territorio della "madre patria", offrendo potenti argomenti a chi istituiva paralleli fra la subordinazione dei colonizzati e la situazione dei loro figli e nipoti nelle odierne periferie metropolitane. La condizione di esclusione di giovani dalla pelle scura e il nome arabo che erano però francesi a tutti gli effetti, nati e cresciuti in patria, si mostrava finalmente come la bestia nera, la ferita più sanguinosa nel corpo della République e della sua vocazione universalista fondata sull'ideale uguaglianza dei citoyens.

Di fronte alle prime violenze nelle banlieues, la destra francese puntò subito il dito contro l''islamizzazione' delle periferie. Ma ben presto questa tesi venne marginalizzata dal dibattito pubblico: i fatti mostravano nel modo più evidente che la religione non aveva nulla a che fare con il passaggio all'azione di questi giovani francesi dai nomi spesso esotici ma che alla moschea preferivano di gran lunga la musica rap, l'erba, i concerti reggae al Trabedo o i club house a cavallo del périferique, le subculture urbane e quelle black dei ghetti statunitensi. Forme di vita simili a quelle dei tre protagonisti del film La Hainedi Mathieu Kassovitz, che insisteva sulla loro mixité etnica e su quella frontiera invisibile ma poderosa che li confinava fuori dal centro della città. Giovani lividi di collera per essere esclusi da un sistema di diritti proclamati universali ma inesigibili e da una società di consumi inaccessibili. Ira per l'esclusione ma anche desiderio di inclusione, dunque. Ragazzi per cui luoghi come il Bataclan incarnavano un mix di risentimento verso prezzi alti e attitudini discriminatorie dei buttafuori, snobismo delle clienti da una parte, di desiderio di essere accolti in quella comunità di notti bohemien dall'altra.

Dieci più tardi, la strage di Parigi rende inattuali queste rappresentazioni, segna il tramonto di queste figure. Rifiuto ed esodo radicale subentrano progressivamente a quel sentimento di risentita mancanza verso diritti di cittadinanza inesigibili e stili di vita irraggiungibili. Al collerico desiderio di inclusione nella società dei consumi - simbolizzato da furti, saccheggi e consumo di droga - e nel sistema politico - rappresento dall'incendio di auto per accedere alla sfera mediatica - subentra l'esodo verso un'alternativa regressiva che ha clamorosamente preso posto al centro dello scenario attuale. Ed è anzitutto di questa alternativa che si deve discutere oggi. Anche a partire da questa provocazione: per un giovane cittadino europeo cresciuto in un complesso di edilizia popolare della cintura urbana, l'adesione al fondamentalismo islamico incarna oggi un'alternativa moralmente superiore rispetto all'adesione ai valori e allo stile di vita offerti dalle nostre società. Il velo dell'uguaglianza di opportunità è stato dilaniato da una realtà in cui neppure il più dedito studio garantisce alcuna prospettiva di mobilità sociale. Raggiungere in qualche modo un tenore di consumo accettabile, approfittare dei piccoli divertimenti che ancora trovano terreno in società relativamente libere: la prospettiva è tutta qui, ed ha il sapore di un prodotto scaduto.

Non parlo dunque, si badi bene, delle 'cause socio-economiche alle radici dell'islamizzazione', ma piuttosto di un'alternativa morale che il soggetto sceglie attivamente e consapevolmente. L'Islam politico incarna così per questi giovani europei una sorta di ritorno alle origini e alla tradizione che ha sapore di riscatto verso un sistema che ha reso invisibile e fastidiosa la tua specifica differenza. La rivolta del 2005 nelle banlieues si scagliava contro il fatto di esser lasciati ai margini di una società in cui si voleva il proprio posto. L'affermazione dell'Islam politico nelle periferie segna il tramonto di questa opzione, della sua plausibilità, e l'affermarsi di un'alternativa complessiva.

La strage parigina cristallizza questo spostamento perché sulla scena della politica e della storia l'irruzione della violenza estrema ha sempre l'effetto di chiarire il campo, di scavare un solco e definire nettamente due parti. La violenza riduce la complessità costringendo a prendere una parte, elide le sfumature, restringe il campo della critica offrendo una rappresentazione dicotomica del reale, imponendo una scelta fra i due campi entro cui la violenza si esercita. Per questo la posizione della sinistra appare oggi la più difficile, e da tale campo provengono - quasi - soltanto inascoltabili balbettii.

La morsa della violenza logora progressivamente il terreno della critica dell'esistente, e fa sorgere potente la sola opposizione fra il nuovo fascismo del Daesh e le logiche che governano la nostra società. La distopia dello Stato Islamico si insedia oggi in quello spazio di unica alternativa che quindici anni fa era abitato dall''altro mondo possibile e dalla prospettiva altermondialista e antiliberista. E in questa morsa, uomini e donne della sinistra sentono un'indescrivibile difficoltà ad assumere una posizione chiara. Eppure si deve. Davanti all'avanzata di questo Fascismo si deve assumere una postura evidente, si devono individuare le coordinate di una battaglia culturale e di una strategia politica. Si deve prestare maggiore attenzione al fatto che i fondamentalisti non attaccano più il World Trade Centre, ma posti come il Bataclan ed esperienze come Charlie Hebdo. E allora sono proprio coloro che più sono affini all'umanità che lì è stata colpita a dover sentire il dovere di una lotta politica e culturale serrata contro l'orrore del Daesh, senza se e senza ma. A partire dalla definitiva dismissione di insopportabili attitudini negazioniste, dietrologiche, complottiste, tutte ugualmente fondate su un razzismo che considera le masse islamiche incapaci di produrre una soggettività in lotta globale senza l'eterodirezione dell'occidente. E non ci si può poi limitare alla mera riproposizione del pacifismo arcobaleno di inizio millennio: il mondo è cambiato, e non in meglio. Non si può sostenere la mattina la resistenza e lo straordinario progetto dei curdi di Kobane, il pomeriggio rivendicare il pacifismo tout-court, e la sera ripiegare sul cinismo passivo della colpevolizzazione dell'occidente. Si tratta anzitutto far pace con l'ordine della politica e, per questa via, con quello della logica.

È giusto affermare che gli interventi militari hanno costruito il problema e non lo risolveranno, e sottolineare le responsabilità dell'Occidente nell'ascesa del fondamentalismo. Ed è necessario, ho cercato di farlo in questo articolo, cercar di capire le ragioni sociali, politiche e morali che spingono i giovani delle periferie verso il fondamentalismo. Ma ciò non può tradursi in un attitudine marginale e intollerabile che suona come "l'avevo detto" o "in fondo ce lo siamo meritati". Di fronte al fascismo (anche se lo ha prodotto l'occidente), l'antifascismo dev'essere il principio di ogni discorso, la matrice di ogni strategia. Solo a partire da questa presa di posizione è possibile ricostruire una posizione critica sul mondo attuale che non sia votata all'inane minorità. Solo così si può costruire un discorso contro la guerra e lo stato di eccezione permanente che abbia un qualche legame con i sentimenti di chi abita le città del nostro tempo.

 

Fonte: Huffington post - blog dell'Autore

Originale: http://www.huffingtonpost.it/federico-tomasello/la-strage-di-parigi-10-anni-dopo-le-banlieues-una-coincidenza-su-cui-riflettere_b_8612644.html?utm_hp_ref=italy