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La devastazione del Rojava

Djene Bajalan, Michael Brooks
18/10/2019 - 21:41

L'attacco di Erdoğan alle zone curde della Siria settentrionale ha un duplice scopo nefasto: distruggere per sempre la speranza del Confederalismo democratico e riprendere l'arabizzazione di quelle terre

Alla fine dello scorso mese di settembre, il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha dichiarato all’Assemblea generale delle Nazioni unite: «La nostra intenzione è quella di stabilire un corridoio di pace in Siria con una profondità di 30 chilometri e una lunghezza di 480 chilometri per fare in modo che la comunità internazionale possa insediarvi due milioni di siriani». Da lunedì scorso, quando Donald Trump ha annunciato che gli Stati uniti potrebbero ritirare le loro truppe dalla Siria settentrionale, il «corridoio della pace» proposto da Erdoğan si avvicina a una realtà.

Eppure, nonostante le parole apparentemente umanitarie di Erdoğan, il desiderio della Turchia di occupare la Siria settentrionale è guidato da motivazioni sia ciniche che nefaste. Un «corridoio di pace» sarebbe un posto utile per ammassare i rifugiati siriani la cui presenza in Turchia è sempre più considerata un onere politico. Inoltre, un progetto del genere fornirebbe ad Ankara l’opportunità di porre fine al governo curdo nella Siria settentrionale (noto anche come Rojava) distruggendone i radicali sogni democratici.

Siriani, fottetevi

Dallo scoppio della guerra civile in Siria, circa 3-4 milioni di siriani hanno cercato rifugio in Turchia. Nel 2016, Erdoğan ha firmato un accordo per svariati miliardi di dollari con l’Unione europea al fine di accogliere rifugiati nel suo paese piuttosto che farli confluire in Europa. Ma mentre il flusso di persone in fuga dai combattimenti è continuato, il risentimento contro i rifugiati in Turchia è cresciuto e le autorità turche sono sempre più impegnate a trovare modi per rimuovere i siriani dal paese.

L’opposizione frammentata della Turchia ha beneficiato del vivace animus anti-siriano, in particolare i centristi e i partiti conservatori. Mentre il Partito democratico popolare di sinistra, filo-curdo, è decisamente pluralista e sostiene un’agenda sociale ed economica progressista, molti degli altri oppositori di Erdoğan sono nazionalisti secolari che hanno poca simpatia per coloro che fuggono dal governo di Assad.

La vittoria del Partito popolare repubblicano (Chp) alle elezioni del sindaco di Istanbul dello scorso giugno è dovuta anche alla xenofobia anti-siriana. Nella notte della vittoria dell’opposizione, l’hashtag razzista #SuriyelilerDefoluyor («I siriani sono fottuti») è diventato di tendenza su Twitter, e subito dopo aver assunto l’incarico il nuovo sindaco del Chp si è lamentato della presunta ubiquità dei caratteri arabi in alcuni dei quartieri della città.

Dunque, mentre Erdoğan e i suoi alleati appaiono desiderosi di sventolare i loro obiettivi benevoli, dietro alla loro pressione per scaricare milioni di rifugiati siriani oltre il confine c’è una logica politica interna più inquietante.

Il Rojava e la politica delle grandi potenze

L’ostacolo principale ai piani di Erdoğan per il Rojava sono le forze democratiche siriane (Sdf). La Turchia ha a lungo considerato l’Sdf come un’articolazione del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), che Ankara combatte dal 1984 e considera un’organizzazione terroristica.

A volte Erdoğan ha cercato di corteggiare gli elettori curdi cercando il dialogo col Pkk. In vista delle elezioni del sindaco di Istanbul di giugno, il governo ha permesso alla stampa di pubblicare una lettera di Öcalan, nella speranza di dissuadere gli elettori curdi dal sostenere l’opposizione. Ma nella maggior parte dei casi, Erdoğan ha approfittato delle sue decrescenti fortune tra gli elettori curdi (in particolare dall’estate del 2015) per stabilire misure severe contro di loro in Turchia: attaccando le città curde, disturbandone gli sbocchi commerciali, arrestando e imprigionando i leader politici e rimuovendo i funzionari eletti.

Erdoğan ha adottato una posizione sempre più bellicosa nei confronti del movimento curdo anche oltre i confini della Turchia. Ad esempio, nonostante i suoi stretti legami economici e politici col governo regionale del Kurdistan in Iraq (Krg) – una relazione che è cementata da un disprezzo reciproco per il Pkk e i suoi affiliati – la Turchia si è opposta con veemenza al referendum iracheno sull’indipendenza del settembre 2017. All’indomani del referendum, Ankara sottopose i suoi alleati curdi del Krg a uno schiacciante blocco economico.

L’ostilità di Erdoğan nei confronti dell’Sdf è stata ancora più forte, anche se il movimento in Siria ha evitato le richieste di indipendenza curda. Sebbene questa ostilità sia motivata dalle connessioni tra Sdf e Pkk, può anche essere intesa come un effetto dell’affermazione dei curdi siriani.

In seguito all’ascesa dell’Isis e al suo tragico controllo di vaste aree della Siria e dell’Iraq, i curdi siriani sono emersi come uno dei gruppi chiave della coalizione costruita dagli Stati uniti per combattere l’avanzata dell’autoproclamato Califfato. Questa alleanza è sempre stata un matrimonio di convenienza. In termini ideologici, ha portato alla peculiare situazione per cui il sostegno militare Usa stava agevolando la formazione di un esperimento di sinistra basato sulle interpretazioni di Öcalan del lavoro del pensatore anarchico newyorchese Murry Bookchin a proposito del confederalismo democratico. Più seriamente dal punto di vista di Washington, questo patto ha minato le relazioni con la Turchia, un alleato degli Stati uniti, mentre Erdoğan si è fatto sempre più ostile nei confronti dei curdi siriani. In breve, la partnership degli Stati uniti con i curdi siriani ha creato tensioni insostenibili per il Pentagono.

Sembrava inevitabile che, a un certo punto, gli Stati uniti dovessero scegliere tra Ankara e Rojava. Mentre la guerra con l’Isis continuava, quella decisione poteva essere ritardata. Ma con l’effettiva sconfitta dell’Isis, la ragione per la presenza americana in Siria si è conclusa. Ora, con l’annuncio di Trump che gli Stati uniti potrebbero ritirarsi dalla Siria – una decisione preannunciata a dicembre 2018 – la contraddizione nella politica americana si risolve a favore di Erdoğan.

Twittando in risposta alle critiche, il presidente ha scritto: «Combatteremo dov’è il nostro vantaggio e lotteremo solo per vincere». Il compromesso di Trump con Ankara aprirà la strada alla Turchia per marciare nel Rojava, spazzare via la popolazione e trasformare i tratti demografici della Siria settentrionale.

L’arabizzazione della Siria del Nord

I tentativi di riprogettare l’equilibrio demografico nella Siria settentrionale hanno una lunga storia. Dopo l’indipendenza siriana, i governi nazionalisti arabi a Damasco hanno cercato di diluire il carattere curdo dell’area. Nel 1962, si stima che il 20% della popolazione curda siriana fosse spogliata della cittadinanza, mossa che li ha privati della possibilità di acquistare terreni o di lavorare nel pubblico impiego. Negli anni Settanta, il regime baathista tentò persino di costruire una «cintura araba» per tagliare i curdi dalle comunità nei paesi vicini.

Questi sforzi di arabizzare la Siria settentrionale, terra di numerose altre minoranze etniche e religiose, furono accompagnati da una guerra ideologica. I toponimi erano arabizzati, la lingua curda penalizzata e le manifestazioni della specificità culturale curda vietate.

Più in generale, il governo siriano ha costantemente cercato di ritrarre la comunità curda come composta da intrusi stranieri, principalmente rifugiati in fuga dalla repressione in Turchia. Durante gli anni Ottanta e Novanta, il Pkk, che ricevette il sostegno del regime di Assad, era disposto ad assecondare questa narrazione. Ma l’emersione di un’amministrazione radicale a guida curda nella Siria settentrionale a seguito dello scoppio della guerra civile siriana ha mostrato la debolezza della campagna di arabizzazione siriana. Ora sembra che Erdoğan abbia intenzione di intervenire laddove i successivi governi siriani hanno fallito.

Il presidente turco ha già chiarito la sua opinione su chi considera i veri proprietari della Siria settentrionale: gli arabi. Non abbiamo bisogno di esercitare la fantasia per immaginare un assalto turco alla Siria settentrionale. Nel gennaio 2018, le forze turche hanno lanciato un’invasione unilaterale della città di Afrin, controllata dai curdi in Siria, devastando la città e sfollando centinaia di migliaia di persone.

A quel tempo, le dichiarazioni della Turchia erano notevolmente simili, con Erdoğan che dichiarava Afrin una città a maggioranza araba. Dall’occupazione della città, le milizie islamiste sostenute dalle forze turche hanno intrapreso l’esercizio del terrore che ha visto le autorità impadronirsi di proprietà e terre curde e consegnarle a famiglie arabe. Se alla Turchia fosse permesso di invadere e occupare il resto del Rojava, è probabile che i curdi subiranno lo stesso destino deplorevole.

Come suggerisce la risposta al (vano) ritiro di dicembre 2018, molti nella sinistra antimperialista giudicheranno con favore l’abbandono della Siria da parte degli Stati uniti. Certamente, l’opposizione al militarismo Usa e alla sua portata imperiale sono lodevoli. Ma un ritiro degli Stati uniti che consente alla Turchia di spazzare via uno degli esperimenti più dinamici recenti di governo socialista per condurre una campagna di genocidio contro i curdi sarebbe davvero un successo per la sinistra internazionale?

La minaccia della Turchia ai curdi siriani riguarda la loro stessa esistenza. Se la Turchia occupasse la Siria settentrionale, i progressi sociali realizzati nella regione, compresi quelli nella liberazione delle donne e nell’autogoverno popolare, sarebbero distrutti. Abbiamo già visto la Turchia e le milizie islamiste sostenere questi proponimenti in Afrin.

Più in generale, il piano della Turchia di reinsediare milioni di rifugiati arabi siriani nella regione sarebbe attuato a spese della popolazione curda. Erdoğan è determinato non solo a porre fine a questa specifica amministrazione curda, ma a sopprimere per sempre il potenziale dei curdi nello svolgere un ruolo decisivo nelle vicende della Siria settentrionale. Ancora una volta, le azioni della Turchia ad Afrin – sequestrare le terre curde, cacciare le persone dalle loro case – forniscono un inquietante prefigurazione del potenziale destino del resto del Rojava.

Per questo proponiamo un’altra importante serie di domande: il ritiro degli Stati uniti che facilita un’invasione turca rappresenta davvero una vittoria per la causa della pace? E considerando l’appartenenza di lunga data della Turchia alla Nato, sarebbe un duro colpo per l’imperialismo Usa?

*Djene Bajalan è ricercatore al dipartimento di storia della Missouri State University. Le sue ricerche vertono sul Medio oriente, precedentemente ha lavorato in Gran Bretagna, Turchia, Kurdistan iracheno. Michael Brooks gestisce il podcast The Michael Brooks Show ed è coautore di The Majority Report.

Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Giuliano Santoro